Storie della banca
13/06/2019
Volksbank e la sostenibilità
Luca Mercalli è un meteorologo, climatologo, divulgatore scientifico e accademico italiano, noto al pubblico televisivo italiano per la partecipazione alla popolare trasmissione "Che tempo che fa" e, grazie alla collaborazione di Etica SGR, partner Volksbank nella gestione del risparmio, è stato nostro relatore principale durante l’evento svoltosi il 4 giugno scorso alla presenza di oltre 250 ospiti di Volksbank.
(Intervista parte 1/2)
Prof. Mercalli da un punto di vista ambientale siamo ormai giunti ad un punto di non ritorno?
Il punto di non ritorno lo abbiamo orami passato 40 anni fa. Questo se vogliamo lo possiamo considerare un clima/ambiente “guarito”, nel senso che oggi siamo già alle prese con dei cambiamenti avvenuti negli scorsi decenni che ci portano già in uno stato patologico del nostro clima/ambiente. Possiamo solo cercare di non peggiorare ma non possiamo più pensare di tornare a un ambiente e un clima senza averne un minimo di conseguenze che ormai sono in atto.
In che senso?
È come un fumatore: se uno ha fumato fino a 50 anni e smette di fumare non ha i polmoni nuovi, li ha compromessi. Ma se smette evita di peggiorare ulteriormente. Se voleva guarire o doveva non iniziare a fumare o smettere l’anno dopo.
Noi abbiamo indugiato ormai per oltre 40 anni rispetto alla conoscenza scientifica che già c’era per cambiare rotta e quindi oggi il punto di non ritorno ormai è superato.
Ci sono in giro tanti scettici, come possiamo concretamente convincerli di cosa sta accadendo al clima?
Intanto ci sono tanti scettici tra le persone della società, ma da un punto di vista scientifico gli scettici sono pochissimi e gli si dà troppa importanza. Perché in realtà fra la comunità scientifica che si occupa non solo del clima ma del cosiddetto settore del sistema terra, che coinvolge tutti i problemi ambientali, c’è un consenso straordinario. Anzi ogni giorno aumentano a dismisura i risultati della ricerca scientifica in tutti questi settori. Se uno li leggesse si renderebbe conto del livello di allarme che c’è. Ma rimangono purtroppo materiali per gli addetti ai lavori, nei cassetti. Nella società passano invece delle visioni che sono negazioniste fondamentalmente o per ragioni economiche o perché sono rassicuranti. Perché le persone tendono a trovarsi degli alibi per autoassolversi. Per non doversi mettere in gioco. Per non doversi impegnare, e quindi anche le fake news hanno molta più presa per questi motivi. Perché portano immediatamente anche il singolo cittadino a non prendersi delle responsabilità.
Noi siamo una banca: come azienda e più in generale come settore, quali comportamenti virtuosi dovremmo adottare?
Questo è un importante settore di azione per avere dei risultati perché sappiamo che oggi i problemi ambientali sono generati fondamentalmente dal tipo di economia che abbiamo messo in atto negli ultimi 70/80 anni. Diciamo dopo la seconda guerra mondiale, la “grande accelerazione”, si chiama proprio così da un punto di vista scientifico: grande accelerazione.
Ma l’economia ha anche la capacità di spostare velocemente i flussi finanziari dalle attività che producono danno ambientale a quelle che invece possono essere virtuose. Mentre i governi sono lenti ad agire e c’è il problema della differente legislazione a livello di 195 paesi al mondo, che quindi prima che riescano a creare dei livelli di contrattazione che accontentino tutti … Lo vediamo ad esempio con l’accordo di Parigi, sono estremamente lenti e poi giocano al ribasso, si assumono delle azioni che sono sempre al di sotto delle necessità. La finanza invece possiamo dire non ha confini, nel momento in cui fa una scelta interessa subito il giorno dopo l’intero pianeta.
Riuscire a togliere “alimenti”, a togliere soldi, ad esempio al mercato delle energie fossili, per dirottarli verso lo sviluppo di energie ambientali, questo è un aiuto che va oltre alle legislazioni dei singoli governi. Parliamo anche dei contesti storici sulla finanza che produce danno o di contro produce vantaggio: pensiamo alle spese militari. È da decenni che si dice perché bisogna mettere soldi in aziende che fondamentalmente producono armi, invece che dirottarli altrove. Pensiamo quanto potremmo migliorare la velocità con cui si investe nei settori delle energie rinnovabili se solo si spostasse una bella fetta delle spese militari su questi settori. Quindi sono anche un po’ certe volte delle scuse quando sento dire che la transazione energetica ci verrebbe a costare troppo! Intanto non si mettono mai in conto i danni, quanto costeranno, che sono stati quantificati in parecchie decine di punti di pil mondiale nei prossimi decenni per i danni climatici. E poi fondamentalmente sui 1700 miliardi di dollari che si spendono ogni anno in spese militari, forse una bella fetta potremmo dirottarla in qualcosa di più utile.
(Intervista parte 2/2)
Esistono alcuni modelli di sviluppo più virtuosi di altri? In Italia questi modelli sono applicati?
Modelli di sviluppo direi che al momento non ce n’è nessuno che sia maturo per essere applicato in maniera estensiva. Esistono delle elaborazioni, possiamo dire, sperimentali, di sistemi economici non basati sulla crescita, sulla formazione del debito, che però purtroppo non sono mai stati approfonditi, sono stati un po’ rifiutati all’origine. Per esempio penso all’economia dello stato stazionario di Herman Daly che è stata elaborata già negli anni 70, ma non ha avuto mai un test pratico. Penso alle sperimentazioni su modelli economici non basati sulla crescita infinita che non è possibile in un mondo finito. Questo ormai lo sappiamo però continuiamo a perseverare pur sapendo che non ci sono le basi fisiche per questo tipo di crescita, cioè quella bassata sullo sfruttamento materiale. Ovvio che potremmo crescere se dematerializziamo ma sappiamo che è un’utopia dematerializzare tutto. Potremmo dematerializzare una parte delle azioni che svolgono le persone nel mondo, ma ci sarà sempre una parte importante invece basata su flussi di materia e di energia e allora ecco un’altra proposta che è quella dell’economia circolare che viene portata avanti adesso dall’Unione Europea, ma siamo veramente ai primi passi e ci manca il tempo. Il problema più grosso di tutta la questione ambientale è che essendo già dentro la fase di danno, noi dovremmo riuscire a trovare delle soluzioni rapide e immediate. Cioè non c’è il tempo di aspettare che la cultura nei decenni faccia il suo corso e ci porti com’è accaduto in altri settori nel passato a cambiare modello. Dobbiamo assolutamente accelerare questa transizione, quindi bisogna un po’ forzarla. Purtroppo non vedo a livello di ricerca scientifica nel campo dell’economia, un’apertura mentale per elaborare al più presto dei modelli da affiancare a quello esistente, ben sapendo che non possiamo cambiarlo in una notte. Dovremmo affiancarlo, dovremmo darci come minimo dieci anni. Curiosamente abbiamo mancato un appuntamento eccezionale che era quello della grande crisi del 2008. Era il momento giusto per interrogarsi su cosa non funzionava più e per mettere affianco nuovi modelli che oggi sarebbero stati pronti per prendere il testimone e invece in questi 10 abbiamo riprodotto fondamentalmente gli errori del passato e quindi non abbiamo guadagnato nulla in elaborazione di pensiero e invece i problemi ambientali sono peggiorati. Quindi la domanda che spesso ci facciamo è “cosa stiamo aspettando” che per altro è una domanda di un grande economista, perché è il secondo titolo del libro di Nicholas Stern, l’autore del famoso “rapporto Stern” del 2006. Il rapporto Stern diceva che i costi dei danni ambientali tra qualche anno ci faranno rimpiangere di non aver investito 1/2 punti di pil all’anno per evitarli. E qualche anno dopo ha scritto un libro che si intitola “why are we waiting”, cosa stiamo aspettando, perché stiamo aspettando. E non mi risulta che al momento ci sia una risposta a questa domanda che per altro arriva da un economista.
Quindi siamo davvero l’ultima generazione che può fare qualcosa per invertire la tendenza del clima?
Si, siamo veramente l’ultima proprio perché il punto di non ritorno è stato superato e se vogliamo ancora avere un’efficacia i tempi si giocano nell’ordine degli anni, a dir tanto un decennio, Dopo? Dopo è tardi. Si faranno delle cose ma saranno delle cose poco efficaci e quindi aumenteranno la magnitudo dei danni che noi, ma soprattutto i nostri figli e i nipoti, andranno a sperimentare.
Che cosa pensa di Greta Thunberg?
Penso che è da ammirare la posizione che ha preso, che per altro non è nuova perché a riprova della nostra lentezza e della nostra inefficacia c’era già stata una Greta ben 27 anni fa, che aveva detto le stesse cose a 12 anni e non a 15 ad un’Assemblea Generale delle Nazioni Unite sull’ambiente a Rio nel 1992. Si chiama Severn Suzuki e oggi è una donna che continua a lavorare nel campo ambientale, allora era una ragazzina canadese che disse esattamente le cose che Greta ha detto adesso. Quindi fondamentalmente abbiamo perso 27 anni.
Greta Thunberg è quel fenomeno di massa che può cambiare la percezione del problema ambientale? Penso ad esempio ad un paragone alla guerra contro il fumo, grazie alla quale in pochissimo tempo abbiamo stravolto la percezione?
No, non credo. Per il clima è più complesso. Perché per esempio per il fumo intanto parlavamo di un’abitudine che era solo di una parte della popolazione, quindi creava una contrapposizione tra chi fumava e chi non fumava. Quando parliamo di problemi ambientali e di energia è una componente che usiamo tutti. Anche io che mi occupo di queste tematiche sono responsabile di una parte del danno. Meno di un altro che non se ne interessa o che non vuole saperne di questi argomenti, ma comunque anche io uso una parte di benzina, un po’ di gasolio, uso l’elettricità. Posso fare delle scelte virtuose, e le ho fatte, ma non posso chiamarmi fuori. Quindi questo rende più difficile l’applicazione quando tutti sono coinvolti. Anche perché tecnologicamente la sfida è gigantesca. Quando parliamo di energia oggi non è che c’è una soluzione con la bacchetta magica, possiamo andare per gradi. Mentre per il fumo era qualcosa che potevi fare on/off si/no. E grazie alla legge è stata una battaglia efficace. Per altro non ha eliminato i fumatori, attenzione, ha solo eliminato certe condizioni di eccessiva libertà che si prendeva il fumatore coinvolgendo anche gli altri. Ma purtroppo se gli vogliamo dare un’analisi più ampia, vediamo che anche la questione del fumo è fallita, fondamentalmente, perché se abbiamo accettato il fatto che fa male, i governi dovevano avere una statura tale da vietarlo, invece il fumo oggi continua ad esistere ed è facoltà dell’individuo fumare o non fumare, nonostante sui pacchetti di sigarette siano scritti terribili moniti, però si continua a fumare e le sigarette continuano ad essere vendute. Se invece poi stabiliamo che è un danno sociale, perché poi devo pagare le spese sanitarie, allora la politica non doveva limitarsi a proibire il fumo in certe condizioni. Doveva dire le sigarette non si vendono più. Oppure le tasso in maniera straordinaria, se proprio non volevo metterci un divieto da proibizionismo tipo droga. Gli carico sopra una sovrattassa così elevata da scoraggiare la diffusione. E invece come vediamo non è successo. Anzi oggi tra i giovani si assiste nuovamente ad un incremento.